Giornata soleggiata, temperatura moderata, qualche piacevole alito di vento. Gruppo alquanto numeroso, forse 80 o 100 persone, tanti bambini allietati dal luogo ameno ed attratti da simpatici cagnolini a scodinzolare qua e là. Singolare uno di questi più lungo che alto, che poi si é chiarito che era una “lei”, soprannominata “Numa Pompilio.
Risalita la comoda carrareccia che porta diritti sotto Montetosto, che raggiungiamo agevolmente, allietati alla vista ( e tatto!) … di un vasto vigneto con i suoi succosi grappoli di uva nera, forse “aglianico”, intercettiamo il Fosso Norcino, presto giungeremo nei pressi delle sue amene Cascatelle.
La passeggiata prevede soltanto la risalita del corso d’acqua per un breve tratto, l’intero percorso, ha perduto “temporaneamente” i suoi lati più belli a causa della siccità. Le ultime Cascatelle sono rimaste a secco, solo un filo d’acqua discende, pertanto oggi rinunciamo a completare l’escursione. Il fosso, con i suoi profondi e ricolmi “bottegoni” di acqua verde scuro e la fitta e selvaggia vegetazione ripariale, ripaga ampiamente le difficoltà di sporgenti e contorte rocce, dall’andamento tettonico irregolare.
Dopo il primo tratto ammiriamo due bei salti d’acqua, continuiamo avanti per 20 minuti circa, invertendo poi rotta di 180°, per far ritorno al campo base (la Cascatella grande), ed attendere ad importanti e più sostanziali faccende.
Il Fosso Norcino nasce almeno 6 chilometri più a monte del punto raggiunto, dove fruisce di un ampio impluvio, adiacente al territorio manzianese. La maggior parte del suo bacino presenta andamento pianeggiante. Nelle stagioni invernali e primaverili, quando piove regolarmente, la sua portata risulta costante per buona parte dell’anno. Soltanto nelle sporadiche giornate di intensa pioggia la vasta piana retrostante restituisce una gran quantità d’acqua nel breve arco di tempo. Inizialmente lo scarso pendio spinge lentamente a valle la massa d’acqua, ma quando questa raggiunge le strettoie del Fosso, aumenta di energia cinetica e velocità, favorite dalle alte coste e dalla pendenza.
Così si provocano le “bombe” d’acqua che tutto travolgono e trasportano a valle. Ma placatesi, le sponde del Norcino non sono più riconoscibili e l’interno dell’alveo presenta di tutto, perfino il sottobosco viene stravolto e distrutto. Ma nel tempo relativamente breve la natura riesce a rimarginare le sue ferite e ripresentare dignitosamente il luogo.
Al ritorno due splendidi focolari accesi dal “Tiburzi” ci aspettano sotto la cascata grande. Già carni stese al fuoco confortano olfatto vista e stomaco. Posto che le 12.00 sono state superate da poco si intuisce che il precoce appetito derivi da forzate diete settimanali, dalla prima camminata dell’anno escursionistico dall’aria fresca e salubre.
Ovunque è reso onore a pietanze e cuochi. Le “tavolate” sono tante ed estese. Poi qualche goccia di vino e liquore allieta ovunque gli animi. La simpatia generale dei convenuti, lo spirito esuberante di alcuni, elevano l’animo. Ciò rallegra. Per un tratto sovrappensiero, il vocio festoso del plotone tiburziano evoca “fantasmi di un recente passato”. Sovvengono i più bei momenti del primo “Tiburzi”, quello degli anni novanta ed il pensiero va a quelli che non ci sono più.
Il primo pomeriggio è dedicato alla visita del bel museo di Cerveteri, nel Castelletto Ruspoli. Finalmente stiamo per entrare al cospetto del più bel cratere attico del mondo, sua maestà il Vaso di Euphronios. Come guidato da un innato richiamo, tralascio la visita alle sale del pianoterra, salgo frettolosamente le scale trascurando quella miriade di reperti ovunque dispensati, buccheri, urne villanoviane, statue, oggetti in argento e bronzo dalle mille forme. Al centro della sala del primo piano scorgo mirabile, dalle immagini di riflessi d’oro, il Grande Vaso. Malgrado la sua classe non c’era nessuno attorno a lui!
La sala del pianterreno é piena zeppa di visitatori francesi, fanno capannello attorno ad una copia ridotta del sarcofago degli sposi. Gli altri due a dimensione normale, sempre provenienti dalla necropoli Ceretana, si trovano al Museo di Villa Giulia (Roma) ed al Museo del Louvre di Parigi.
“Seigneur et messieurs ce sarcophage d'é une copie de celui-là, le nôtre qui se trouve au musée du Louvre de Paris”: Ma di che cosa stanno parlando!
Gli “sposi” dovevano tenere in mano qualcosa, forse delle uova. Era tradizione degli etruschi scambiarsele in segno di auguri (prosperità?), da qui risale l’analoga usanza cristiana per il giorno di Pasqua.
CAERE (Latino) – KYSRY (Etrusco) – AGILLA (greco)
Le prime presenze etrusche sul territorio cerite risalgono al IX secolo a.C., per raggiungere il massimo fulgore con un’esplosione di potenza e di ricchezza propria nel periodo orientalizzante, che nel luogo si protrae dal VII secolo fino a tutto il VI a.C.
Più antiche presenze sul territorio, risalgono al periodo “villanoviano”, attestate dalle necropoli di Montetosto, del Sorbo e della Cava di Pozzolana, che si inseriscono in un orizzonte cronologico che va dalle ultime fasi dell’era del Bronzo a quella del Ferro (X secolo a.C.).
Non ci è dato modo di sapere se il popolo “Villanoviano”, noto per l’aspetto cultuale dalle caratteristiche deposizioni ad incinerazione entro urne biconiche, sia precursore di quello etrusco o di diversa origine. La sua particolare “sepoltura”, cede poi il posto a deposizioni ad inumazione, lasciando supporre influenze di popolazioni allotrie, ben tollerate dai nuclei indigeni, che apportano nuove espressioni di civiltà e cultura. Tombe a tholos ad inumazione, proprie della penisola Anatolica con falsa cupola ad aggetto. Uso della porpora Tiria. Immagini di animali non propri del luogo, su coroplastica o bronzo.
Tale civiltà si sviluppa entro un vasto territorio, stimato in c.a. 800 ettari. Esso si affacciava per un’ampiezza di c.a. 50 chilometri sulla costa tirrenica, compreso tra la foce del torrente Marangone fino ad oltrepassare il porto (etrusco) di Fregene e giungere quasi alla foce del Tevere. All’interno il domino comprendeva i Monti della Tolfa, raggiungeva Blera e Barbarano, buona parte occidentale del Lago di Bracciano fino ad Angularia (Anguillara), il Lago di Martignano, il territorio di Ceri, per ricongiungersi verso il mare di Fregene. I suoi principali porti erano Punicum (Fenicio), Pyrgi (etrusco-fenicio) ed Alsium (etrusco).
La sua vasta necropoli, risulta progettata seguendo linee ortogonali (schema ippodameo). Chiaro disegno di persone qualificate. Le sue imponenti tombe a Tumulo sono affiancate, utilizzando il minimo spazio disponibile. In alcuni casi si assiste a sovrapposizione di diramazioni o celle dell’una o dell’altra sepoltura. I suoi architetti furono senz’altro maestri nell’arte funeraria. Caere viene ricordata per questo. Così come Tarquinia è nota nel mondo per l’arte pittorica, Vulci per la realizzazione dei “bronzi” e delle statue in “nenfro”, mentre Veio per le statue in terracotta realizzate dal famoso Vulca (Apollo di Veio).
Caere nel V secolo a.C. fu protagonista di un fatto singolare. i Focei o Focesi, abitanti greci dell’Asia minore, sospinti dall’avanzare del popolo persiano abbandonano le coste Lidie per stanziarsi in Corsica. Gran parte di quel popolo, dopo lunghi e ripetuti viaggi via mare, raggiunge l’isola, fondando la città di Alalia e nel sud della Francia, alla foce del Rodano, Marsiglia.
I Sardo-punici e gli Etruschi, mal digeriscono l’invasione di loro territori. Da poco hanno scoperto giacimenti di stagno sulla montagne Corse, utili per le leghe con il rame, oggetto di lucrosi scambi commerciali. Quel metallo se lo andavano a cavare in Inghilterra, traversando le Colonne di Ercole.
L’invasione “focese”, seppur pacifica, danneggiava molto gli interessi commerciali ed “industriali” delle due popolazioni.
Sardo-punici ed Etruschi erano accomunati da un’unica origine, vivevano in due territori diversi ma i loro rapporti erano rimasti molto “stretti”, probabilmente avevano un medesimo idioma.
Discendevano dai cosiddetti “Popoli del mare”. Abili pirati mercenari ricercati che per i loro preziosi servigi militari. Basti pensare che in una battaglia navale che vede protagonisti gli Egiziani di Ramses III, contro invasori mediorientali (II millennio a.C.), questi “popoli” si ritrovano a combattere su entrambi i fronti, perché ingaggiati contemporaneamente dai due avversari!
Pirati del mare pleonastico parlare della loro audacia, ferocia. e competenza.
Erano stanziati nel vasto Delta del Nilo, ma quando il Faraone, si rende conto di avere una “spina nel fianco”, li scaccia via.
Dalla letteratura egizia apprendiamo la composizione completa di questi Popoli. Ne facevano parte: Derden, Luka, Akawasha, Sheklesh, Tursha e Sherden. Dietro questa grafia si riconoscono, a giudizio concorde di molti autorevoli studiosi, nomi a noi familiari: Dardani, Lici, Achei, Siculi, Tusci o Tirreni e Sardi.
Sardi e Tusci si stanziano in Sardegna e sulla costa tosco-laziale.
La Battaglia di Alalia fu condotta dalla Lucumonia di Caere, alleata con il popolo “Sardo-punico.
Ma appare evidente che altre popolazioni rivierasche etrusche, di Tarquinia, Vulci e Vetulonia, siano intervenute nella contesa, seppur con un ridotto contingente di mezzi ed uomini.
Dall’etruria partono ben 60 navi da guerra. Ne salpano dai porti di Alsium, Pyrgi e Punicum, altre si uniscono, “strada facendo”, dai porti di Gravisca (Tarquinia), Regisvillae, ed infine da quelli di Vetulonia.
La flotta segue rotta “a vista”. Doppiato il promontorio dell’Argentario, raggiunto il Lago Prile punta verso l’Isola d’Elba. Traversa il breve tratto di mare e si porta nell’ampio Golfo di Portoferraio.
Da qui le navi, rinnovate le scorte, con il favore dei venti e delle maree, si ancorano in rada avanti Pianosa e Montecristo, prossime ad Alalia (Aleria).
Le etrusche biremi e triremi, sono molto veloci. Utilizzano una doppia velatura per la navigazione, sanno andare controvento (bolina). e quando debbono combattere utilizzano anche la propulsione a remi. Sono dotate di un rostro fisso di prora, posto ad una data altezza, che impatta la nave avversaria ove il fasciame è meno spesso. Sfondate le paratie trascinano l’imbarcazione avversaria privata di governo, utilizzando appositi uncini, ove non sia già prossima all’affondamento. Autentici corsari, sulla prua dell’elevato ponte sono posti arcieri per colpire gli avversari, mentre soldati armati si calano sulla nave per completare il resto.
I Focesi dispongono di 60 navi del tipo “pentecontero”, sono mezzi molto capienti ma pesanti e non agili per il mare. Dall’uso misto, ma adatte sia per la guerra che per il commercio, si muovono grazie alla propulsione di 25 remi per parte.
Anche i Sardo-punici partecipano al conflitto con 60 “pentecontero”. La lotta appare già impari.
La battaglia navale è ben studiata dagli “alleati”. Gli etruschi con le loro navi veloci si lasciano inseguire, fingendo ritirata. Trascinano verso le Bocche di Bonifacio le “pentecontero” focesi, ove la marineria Sardo-punica attende in agguato. Appena i Focesi vengono aggrediti di lato dalle navi sardo-puniche, le imbarcazioni etrusche, ripiegano velocemente su se stesse, chiudendo a tenaglia il nemico.
Per i focesi non c’é scampo, perdono ben 40 navi. Erodoto, noto storico greco (alquanto partigiano), narra di una vittoria greca, dice che le 20 navi superstiti non potettero continuare la battaglia perché avevano il rostro ripiegato …. ma che il conflitto fu vinto dai Focesi seppur con vittoria Cadmea !!!
Appare illogico quanto tramandato da Erodoto, se gli etruschi tornano in “patria” con 500 prigionieri e navi catturate e che altrettanto bottino ottennero i sardo-punici. Ad avviso di altri autori la vittoria non fu affatto dei Focesi, tanto che le loro navi superstiti con il resto della popolazione fecero poi rotta verso la Magnagrecia ove fondano Elea (Velia), abbandonando per sempre la costa Corsa. Ma, come vedremo, non più tardi di un secolo, i greci si prenderanno la loro rivincita!
Gli schiavi vengono ripartiti in egual numero, così pure gli oggetti preziosi. La Corsica ed il Mar Tirreno restano di dominio etrusco, ai Sardo-punici vanno il Mediterraneo occidentale, le coste francesi e spagnole.
Gli etruschi fanno ritorno, vittoriosi, in Patria! Le loro navi stanno per raggiungere Pyrgi. Recano al seguito le Pentecontere catturate, con tutti gli equipaggi ed il bottino di guerra.
Fama, messaggera, ha diffuso ovunque le notizie della battaglia di Alalia. I Ceriti accorrono al porto di Pyrgi esultanti, quando tre prolungati suoni di buccini preannunciano l’arrivo degli eroi. Dal Popolo Rasenna si leva un lento canto quando una indistinta scia bianca appare all’orizzonte. Sono le navi etrusche. Hanno alzato i vessilli di guerra. Man mano che si avvicinano alla costa si pongono a cuneo rovescio, in centro è la Capitana. Appaiono gli scafi dai disegni geometrici di porpora Tiria. Poi un prolungato suono di tamburi e di auleti a scandire il tempo ai rematori. Suoni man mano sempre più frequenti e cupi che incutono timore, mentre le audaci prore segnano il mare. Sotto la prora di ciascuna imbarcazione, un grosso delfino in bronzo (*), simbolo del popolo Rasenna, nasconde un’insidia, é un micidiale rostro, terrore delle navi nemiche.
Mentre le Vestali accendono bracieri ove arde l’antico sacro fuoco, da cui si sprigionano aromi di mirto, alloro e ginepro, ovunque manifestazioni festose mentre squilli di tromba annunciano l’arrivo del Lucumone. Iniziano le cerimonie ufficiali. E’ gloria terrena per chi è tornato, imperitura per chi ha perso la vita in mare nel sacro compito di difendere la Patria.
(*) Nell’Inno a Dioniso. Attribuito ad Omero, è narrato che gli etruschi, nella loro attività piratesca, catturarono Dioniso, figlio di Sèmele, “ma mal gliene incolse”! Il Dio li tramutò immediatamente in guizzanti delfini! Da allora le genti etrusche consideravano di buon auspicio l’incontro in mare con i delfini perché ritenuti loro antenati. Il simbolo del delfino guizzante è presente in alcune pitture tombali e sta a significare che il defunto, in vita, aveva avuto a che fare con il mare. Anche nella monetazione etrusca sono presenti immagini di delfini. Quanto al ratto di Dioniso si può ipotizzare che si faccia allusione al furto di vitigni greci.
Anche gli etruschi non si sottrassero ai macabri riti del sacrificio umano!
La storia ci tramanda dell’eccidio di tutti i prigionieri di Alalia. Ma fu la popolazione civile caeretana, nel ricordo di atti vandalici e scorrerie piratesche compiute dai focesi, a voler eseguire la condanna. La triste esecuzione sembra avvenuta sulla collina di Montetosto, ove era ubicato un tempio. Qualche autore riferisce che sia avvenuta presso il porto di Pyrgi, avanti il Tempio, quale sacrificio alla etrusca UNI ed ASTARTE fenicia.
Con i cadaveri viene composta sulla spiaggia, una immane catasta a forma piramidale.
Con il tempo, andati in decomposizione i corpi, il cumulo di bianche ossa, rimase a “monito” di chiunque!
Ma in Etruria cominciano a manifestarsi fatti strani! Chiunque, passando, avesse volto lo sguardo verso quei miseri resti umani, bestia da pascolo, da soma od uomo, subiva strani prodigi. Diventava storpio, contraffatto od impotente.
Presso il Tempio di Pyrgi, era ubicato un libero emporio ove convenivano commercianti da ogni dove. I Sacerdoti che amministravano la raccolta delle ricche offerte votive e le vestali pensano che quei nefasti prodigi, inspiegabili, siano messaggi degli Dei!
Viene così deciso di interpellare l’Oracolo di Apollo in Delfi, ove Caere ha un proprio thesaurus. Inviati i legati in Grecia, il responso sentenzia le cause di quelle disgrazie.
Per placare le ire delle avverse divinità per l’ingiustificato l’eccidio, occorre dare sepoltura ai miseri resti umani abbandonati sulla spiaggia di Pyrgi. Bisogna poi offrire sacrifici, giochi ginnici ed ippici in onore di quei caduti.
Il caso vuole che in Caere, dopo l’attuazione dell’oracolo delfico, torna tutto normale!
La letteratura antica ricorda Mezenzio, re di Caere, per la sua cattiveria. Questo sovrano faceva legare un prigioniero vivo ad uno morto “viso a viso”, per lasciar marcire lentamente entrambi i corpi. Molto appropriata sarebbe l’identificazione di Mezenzio, con il re crudele che ha condannato alla lapidazione gli schiavi focesi.
Ma Mezenzio, racconta Virgilio nell’Eneide, tra gli episodi della conquista del Lazio, viene sfidato in duello da Enea (od Ascanio) restando ucciso, correva allora l’anno 1200 a.C. circa.
Appare anacronistico questo racconto, per quanto Virgilio, probabilmente fosse bene informato da Mecenate sul popolo etrusco, suo amico. Mecenate apparteneva ad una ricca famiglia etrusca di Arezzo e viveva in Roma intorno al I secolo a.C.
L’arrivo di Enea sulle coste laziali viene posto intorno al 1250 a.C., dopo la Guerra di Troia. In quel periodo Caere e la nostra Etruria era soltanto un rifiorire di nuclei di villaggi protovillanoviani.
Ritengo utile riportare per i più assidui lettori, cioè che ebbi modo di riportare a commento di un’uscita nei pressi del Mignone. Note presenti sul sito Link “Saggi”:
“”Virgilio nel X canto dell’Eneide, narra che Enea dopo lunghe peregrinazioni lungo le foci del Tevere, fortemente determinato a dare origini ad un popolo che potesse vendicare la sconfitta subita dal popolo troiano da parte dei Greci, intendesse stanziarsi lungo il corso del Tevere. Ma qui incontrò l’ostilità dei nativi, il popolo dei latini, che poi vinse con l’ausilio di una lega composta da uomini etruschi tra cui " qui sunt in arvis Minionis", località che riteneva patria del suo progenitore, il re dei Dardanidi, Corito:
Màssico il primo in su la Tigre imposto avea di mille giovini un drappello, che di Chiusi e di Cosa eran venuti con l'arco in mano e con saette a' fianchi.
Appresso a lui, seguendo, il torvo Arbante sotto l'insegna del dorato Apollo seicento n'imbarcò di Populonia, trecento d'Elba, in cui ferrigna vena abbonda sì, che n'erano ancor essi dal capo ai piè tutti di ferro armati.
Asìla il terzo, sacerdote e mago che di fibre e di fulmini e d'uccelli e di stelle era ‘nterprete e ‘ndovino, mille ne conducea, ch'un'ordinanza facean tutta di picche: e tutti a Pisa eran soggetti, a la novella Pisa, che, già figlia d'Alfeo, d'Arno ora è sposa. Asture, ardito cavaliero e bello, e con bell'armi di color diverse, vien dopo questi con trecento appresso di vari lochi, ma d'un solo amore accesi a seguitarlo. Eran mandati da Cerète e dai campi di Mignone, dai Pirgi antichi e da l'aperte spiagge de la non salutifera Gravisca.””
Nel 340 a.C. circa, il Tiranno di Siracusa, Dioniso il Vecchio, approfittando del momento di crisi politica ed economica che stava attraversando l’Etruria, risale con le sue navi il Tirreno ed espugna i porti di Caere. Dai templi di Pyrgi ( A e B) sottrae ex voto ed altri doni per circa 1500 talenti.
Un talento, antica misura di capacità e/o monetaria greca, viene valutato pari ad Euro 6.500 (fonte Internet). Per cui Dioniso il Vecchio dai templi di Pyrgi potrebbe aver tratto una somma pari a 9 milioni e 750 mila euro (quasi 19 miliardi delle vecchie lire). Un bel bottino!
Ma dal saccheggio si salvano, perché nascoste nelle intercapedini del muro del tempio, le famose lamine d’oro. I due frontoni in altorilievo, posti sulla facciata dei templi, furono frantumati, ma ricostruiti, rappresentano il mito dei “Sette a Tebe”, in cui viene proposto il duello mortale tra Melanippo e Tideo e le fatiche di Ercole.
La profanazione e la distruzione dei templi etrusco-punici di Pyrgi seppur sacrileghe non pareggiano comunque i conti con l’eccidio dei 500 focesi, perpetrato sulle rive del Tirreno c.a. 100 anni prima.
Le famose lamine d’oro, due scritte in etrusco ed una in Fenicio. Riportano forse episodi diversi, il contenuto di una di questa è stato tradotto con una certa sufficienza. Vi è detto, tra l’altro, che il lucumone Thefarie Velianas ha dedicato un’edicola sacra alla divinità Cartaginese Astarte (Leucotea-Ilizia) per avergli concesso di regnare in Caere. La dedica nasconde un maggior interesse per divinità punico-cartaginesi.
Vani, 6-10-2015